Non dirmi che hai paura – Giuseppe Catozzella

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All’inizio di questo libro ci sono alcune frasette entusiastiche sul lavoro di Giuseppe Catozzella (che io chiamerò Peppe) firmate da Augias, Saviano e da altri che non conosco perché sono ignorante come la buca delle lettere. Peppe non lo sa che i complimenti fatti dalla persona sbagliata potrebbero mandarti una cosa sulle palle per sempre. O forse lo sa, perché si gioca la carta Augias che è come calare un jolly-assopigliatùtto-briscola-7bello.

Peppe racconta la storia di Samia, una ragazzina somala che ama la corsa e sogna di diventare un’atleta e di vincere le olimpiadi portando la bandiera somala sul tetto del mondo: e fino a qui tutto bene. Ma tu che sei ignorante ed hai visto L’Odio di Mathieu Kassovitz quando senti la frase finoaquituttobene lo sai che stai precipitando da un palazzo – ed il palazzo da cui Samia precipita si chiama Somalia, si chiama Mogadiscio, si chiama guerra, si chiama Al-Shabaab. E la ragazza, così come la sua famiglia, così come tutti quelli che vivono lì, deve fare i conti con la dura e merdosa realtà del suo paese: che tu abbia un sogno o no, che tu sia dotato o no, chiunque tu sia, la tua vita è appesa ad un filo. Eccàzzo possiamo dire però che anche fino a qui, narrativamente parlando, va comunque tutto maledettamente bene. Ma poi succede una cosa.

Succede che scopro che sto leggendo sì un romanzo, ma basato sulla vera storia dell’atleta somala Saamiya Yusuf Omar. Lo scopro solo ora non solo perché sono il king dell’ignoranza, ma soprattutto perché non mi piace sapere troppo sulle cose che decido di leggere, proprio per essere colto di sorpresa (colto con la “o” aperta eh, non mettiamo in giro strane voci…). Stavolta però la sopresa non solo mi coglie ma mi spezza il fiato a metà corsa, mi rallenta, fino a costringermi a fermarmi con le mani sulle ginocchia e a rimpiangere di aver iniziato questo libro – che ora non riesco più a non leggere.

Perché la storia di Saamiya, che Peppe ha scelto di romanzare, è stata ricostruita cercando le fonti direttamente dalla memoria e dalla bocca di Hodan Yusuf Omar, la sorella. Che tramite il filtro di Peppe ci racconta la loro infanzia, la loro intimità, le loro amicizie, il tentativo di vivere in pace in un paese spaccato, le fatiche di Saamiya che sognava di correre, che voleva a tutti i costi essere come Mo Farah. Hodan affida a Peppe i ricordi che vengono con delicatezza tradotti in una storia di passione e dedizione di cui però già sappiamo il finale. E il finale è una merda. Perché è di una crudeltà inaudita. Ed è ingiusto, sbagliato, vigliacco, infame, ladro. E più la storia va avanti e più tu già conosci il finale e non vorresti proseguire. E vorresti cambiarlo quel finale dimmèrda ma non puoi. E allora vaffanculo.

Saamiya finisce i suoi giorni in mare, tentando di afferrare una cima lanciata da un’imbarcazione della Guardia Costiera italiana. Muore annegata, come altri. Come tanti prima e dopo di lei. Gente di cui non sappiamo nulla, che viene da posti di cui non sappiamo nulla, che ha affrontato viaggi di cui non sappiamo nulla*. Muore per colpe non sue. Per le colpe di tutti, probabilmente.

Grazie Peppe per questo pugno nello stomaco scritto così bene. Grazie per avermi lasciato solo di fronte alla mia ipocrisia.

Addio.

* Il viaggio, così lo chiamano. Il viaggio viene rimosso da chi lo compie, per questo se ne sa poco. Chi sopravvive al deserto, ai carcerieri, alla traversata in mare, chi sopravvive a tutto questo – che può durare anche mesi – lo rimuove. E chi arriva in Europa molto spesso non è la stessa persona che è partita. Quella persona muore durante “il viaggio”.

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