Maus – Art Spiegelman

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Cercherò di dire quello che voglio dire usando meno parole, meno enfasi, meno tutto (meno a tutti), perché rischio seriamente di mettermi qui a piangere per il trasporto emotivo con cui ho consentito a quest’opera di prendere le mie budella e di usarle come un nunchaku per affrontare un all-star team di barbari costituito dagli scheletri nell’armadio, dai sogni nel cassetto e dai fantasmi del passato.

Lo avevo letto da qualche parte che questo lavoro era una di quelle cose da leggere prima di morire (mi pare su Mondadori Store – quindi graziealcàzzo, devono vende’ i libri…) e allora io giustamente e simpaticamente ho pensato Vabbè quando comincio a sentirmi male ed i dottori mi dicono che mi mancano pochi giorni di vita io me lo leggo… E quindi non l’ho mai letto. Ma ora, visto che il CoronaVirus è salito sul treno per venire a sterminarci tutti – e quindi la morte non è più un’ipotesi così lontana – ho deciso di leggerlo.

Però poi ecco. Io che tento sempre di scrivere cose simpatiche, io che cerco sempre di strappare un sorriso a qualcuno, me compreso, io che sono un inguaribile simpatico, io di qua e io di là… io non ero pronto a leggere una cosa del genere. Non in questo momento, forse. Ma non credo ci sia mai un momento per una cosa così triste.

Perché per quanto uno le cose le sappia perché le ha lette, le ha viste in tv, nei film, per quanto uno possa approfondire, non c’è modo di riuscire a vivere alcune cose, soprattutto se quando sei ragazzino sei cresciuto con barzellette tipo Sai chi vince in una corsa di velocità tra un ebreo e un tedesco? Il tedesco, perché all’ebreo lo brucia sullo scatto, hahaha… e giù grasse risate. E allora arrivo a credere che ci sia un tempo per ogni cosa, una sensibilità per ogni età (e un cazzo per ogni culo, volendo…). E mi rendo conto di non essere molto lucido però insomma, come si fa? Questa cosa è troppo grande per parlarne. Posso parlare forse solo dell’opera, e allora ecco.

Il modo in cui è costruito questo racconto è fantastico: i dialoghi, i continui salti tra passato presente e futuro, la pesante autocritica che scaturisce dalla paura/certezza di essere visto dall’esterno come uno speculatore. Ma soprattutto la narrazione che riesce a far percepire esattamente un concetto: quando una cosa finisce è finita non frega più un cazzo a nessuno. Anche una cosa grossa come la guerra, come uno sterminio.

E allora grazie Artie, per avermi fatto risalire il dramma interiore tragicomico di Eduardo De Filippo in Napoli Milionaria, quando dopo anni di prigionia torna a casa e non se lo incula nessuno: la sua storia non vuole essere ascoltata, La guerra è finita, non romperci le palle, Genna’, vieni qua, beviamoci una cosa, brindiamo. Pure se non hai sete…

Grazie Artie, perché il tuo racconto in qualche modo giustifica o aiuta a comprendere come mai quando io da ragazzino raccontavo la mia barzelletta razzista non ho trovato mai nessuno pronto a darmi un calcio in bocca giustificando tutto con un bel Alla fine è solo un regazzino, sticazzi. Anzi vieqquà, mo te ne racconto una io..

Grazie Artie, perché hai la stessa facilità rappresentativa di Zerocalcare. E la tua umiltà nello scrivere, il tuo sentirti piccolo di fronte ad una cosa così grande, ti dà la stessa credibilità che ho attribuito alle cose di Gipi. Ora capisco meglio anche le loro opere, alla luce della tua. Boh, forse hai ispirato anche loro, chenesò…

Insomma, sbrigatevi a leggerla. Perché è un documento importante. Poi un po’ forse ve ne pentirete, ma la vostra anima, o al limite quella de li mortacci vostri, quella vi ringrazierà.

Shalom.