Sventura – Chuck Palahniuk

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Il Patrick De Gayardon dell’irriverenza dopo aver toccato il fondo con le dita (ed aver quindi ad un tratto sentito la forza della vita), prova ad andare ancora più giù. E io, seduto più o meno comodamente, mentre leggevo il libro nel cesso, in cucina o in cantina, provavo un po’ di pietà per il tipo. Dover sempre superare i propri limiti non dev’essere una cosa facile, non dopo aver scritto quello che ha scritto lui. Insomma essere Chuck Palahniuk secondo me è più complicato di essere John Malkovich, a parte avere entrambi un’H nel nome ed un’H e una K nel cognome.

La mente perversa dello scrittore veste i panni di una tredicenne miliardaria figlia di hippies straricchi e strafattoni nonché divi del cinema e degli affari e quasi padroni del mondo in senso inizialmente solo morale, ma poi alla fine anche materiale. La sintesi delle contraddizioni che i genitori fanno vivere alla figlia è racchiusa direttamente nel nome dato alla giovane: Madison “Desert Flower Rosa Parks Coyote Trickster” Spencer.

Questo libro si sviluppa come fa Il Padrino Parte II, cioè dà per scontata la lettura di Dannazione, e aggiunge elementi alla storia, precedenti e posteriori. Siamo sempre nella testa di una tredicenne che, cercando di attirare l’attenzione dei genitori, sia da viva che da morta, le prova tutte: finge telefonate con Gesù, finge che la sua gatta morta non sia morta, finge di praticare zoofilia erotica o bestialismo o zooerastia, finge di mangiare (ma invece butta il cibo dalla finestra) nel tedioso nord dello stato, insomma finge una cifra di cose.

Il libro è scritto sotto forma di una moderna epistola, e cioè in tweets, che la 13enne di cui sopra si scambia con i suoi nuovi amici conosciuti all’inferno. Da questa corrispondenza di poco amorosi sensi, si viene traghettati (ma non col traghetto tipo quello per Ischia, eh… Qui si parla di elicotteri, yacht, o al limite di spiriti che si muovono da una stanza all’altra tramite i cavi elettrici) fino alla fine dei giorni che scocca in nuovo continente piattaformoso e galleggiante fatto creare con rifiuti plastici dai genitori di Madison.

L’assurdo è servito, ottimamente presentato e impiattato. Ma a me, se interessa, ha un po’ rotto i coglioni.

Vorrei poter dire: Chuck, non sei più quello di Gang Bang, ma non lo faccio perché sotto questa frase striscia latente la demenza. Però, ecco, vorrei quasi.
Vabè, niente, ciao.

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