Questioni marxiste – Manuel Vázquez Montalbán

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Mi ricordo che stavo al liceo e verso la quarta o la quinta arriva un professore di filosofia matto come un cavallo. Era uno che credeva veramente nella filosofia, non come noi che stavamo già diventando dei piccoli materialisti. Egli si chiamava Gianni Galatone (nome di fantasia*) e veniva a scuola con una Fiat 500 (il cinquino quello originale, che allora non era vintage, non era nemmeno da fricchettone come il Bulli Wolkswagen, era solo da povero) senza freni e che per questo appoggiava con il paraurti al muro. Chiedeva se secondo noi era giusto andare in presidenza per far installare degli “attracchi” per i cavalli, così uno (cioè lui) era libero di venire a fare lezione cavalcando il proprio equino. Una volta ha invitato il professore di filosofia di un’altra sezione a discutere di ragion pura e ragion pratica sui gradoni della scuola e quello ci ha guardato come per dire Ma che devo chiama’ il 118? E noi Sì, te prego, fallo!…

Immaginatevi Gianni come Pico De Paperis, ecco, tanto per dare un volto al personaggio.

Insomma Gianni era matto. Non proprio matto da legare, però insomma camminava sul filo. Per questo anche nelle interrogazioni e nei compiti in classe faceva domande del cazzo, spesso trabocchetti, e ci spingeva ad usare la testa. Quale testa? direte voi… Ma ‘nfatti!…

Tutta ‘sta pippa per dire che Manuel Vázquez Montalbán, che noi per comodità e vicinanza intellettuale chiameremo Manuelito, in questo libro fa una cosa che mi ha ricordato una delle “giannate”. Il prof una volta ha chiesto al mio amico Enrico (nome di fantasia anche questo**) una roba tipo: se in una stanza si trovano Epicuro, Napoleone e la regina Elisabetta, di cosa parlano?


Ecco, Manuelito fa uguale***: prende Karl Marx e lo unisce – via cognome – alla cricca dei fratelli Marx, Groucho, Harpo e Chico facendoli filosofeggiare insieme, ma non solo; li fa cazzeggiare volando sulle ali di Pindaro, ma non solo; gli fa infilzare la filosofia per rigirarla come un arrosticino sulla griglia, ma non solo. Divertendo di quando in quando Manuelito arrostisce le palle del lettore, scrivendo una cosa che non può essere letta da nessuno, nemmeno dopo un cannone bello cicciotto, se non da chi l’ha scritta. Vi posto un esempio qui sotto (ma tanto è tutto così):

Groucho passeggia nella periferia di una città industriale, Harpo lo segue con particolare attenzione nel tentativo di calpestargli l’ombra. Ogni volta che Groucho si gira a guardare indietro, Harpo si blocca in uno sforzo automatico di far finta di niente. Groucho lo lascia fare. È preferibile lasciarsi calpestare l’ombra piuttosto che farsela tagliare dalle forbici insanguinate che Harpo serba nel fondo della coscienza. Groucho trasforma la camminata in una visita culturale. Indica le statue e impone loro nomi tratti dalla sua mitologia personale.

“Priamo Smith, nato a Coimbra”. Harpo cerca di prendere appunti, ma in realtà scrive oscuri pensieri sulla rivoluzione sessuale delle statue.

“Guarda, Harpo, l’assoluto”. Groucho indica un punto imprecisato all’orizzonte. Harpo applaude.

“Guarda, Harpo, il paradiso”. E si mette la mano in tasca in un gesto ambiguo, come per riprendersi qualcosa, per preservarla. Harpo non vuole essere da meno e gli mostra una formica rossa del suo allevamento. È il momento scelto da Groucho per tirar fuori un flauto ed eseguire una sonata di un autore ignoto. Lo seguono topi e bambini, grilli e vedove, conigli e passerotti, addirittura alcune statue tentano di muoversi in armonia con la musica.

“Ricordi papà? papa il Pope”. Harpo cade in atteggiamento da estasi orante. “Papa il Pope ci disegnava le strade che portavano all’assoluto e al paradiso. Talvolta l’assoluto era Dio, talaltra la dialettica. In certe occasioni il paradiso era il cielo, in altre un supermercato, in altre un letto, o un’unità di produzione di Baku, in altre ancora una comune cinese. Bisognava indicare quelle strade per dare un senso all’atto di lavarsi i denti tutte le mattine. Era impossibile sopravvivere senza essere sulla strada di uno di quei paradisi, con le labbra attaccate alla mammella di uno dei due assoluti”.

Papa il Pope attraversa il cielo sopra i due fratelli. Finge di non notarli nonostante Harpo salti e suoni un clarinetto per avvertirlo della loro presenza. papa il Pope, senza muovere un solo muscolo del corpo o dell’anima, continua il suo volo, inghiotte un’otarda, inghiotte una nuvola e la espelle dal naso e solo prima di svanire nell’orizzonte a destra si volta e li omaggia di una scorreggia urbi et orbi.

Addio.

(Montalbán, montalterà eh…).

* Nome di fantasia il cazzo, si chiamava proprio così quell’esaurito!

** Pure Enrico è il nome vero. Però siccome a Enrico gli voglio bene, il cognome non lo pubblico. Anche perché non sono nemmeno sicuro che l’episodio raccontato lo coinvolgesse.

*** Non è che Manuelito fa uguale, eh: al limite è vero il contrario. Lo scritto esce nel 1988, Gianni era il mio professore nel 1993/94, all’incirca.

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