Trilogia della città di K. – Agota Kristof

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Sento parlare di questo libro alla Radio, non mi ricordo che radio era. L’unica cosa che mi ricordo con sicurezza è che era la radio della mia macchina. E che stavo a Latina. E che come al solito avevo fatto due giri della città a vuoto prima di trovare lo svincolo giusto.

Il tipo che ne parla lo descrive con lo stesso trasporto di un tifoso romanista che ti racconta il quarto di finale contro il Barcellona vinto 3-0.

Una cosa fantastica, dice. Una scrittura asciutta, dice. Una trilogia che Matrix spostati, dice. Quando hai finito di leggere il terzo, dice, devi ricominciare dal primo, dice. L’autrice, dice, ti porta in questa città di K. e ti abbandona lì, dice, ti tratta male ma tu ne vuoi ancora, dice. Una cosa sensazionale, dice. Le lacrime non ti escono solo perché la scrittura così asciutta, dice, ti asciuga le ghiandole lacrimali, dice*.

Il libro in effetti è crudo. E non è affatto dolce. Anzi, direi quasi che è di montagna, perché poi di notte mi sono dovuto alzare per bere. E ti lascia varie volte di stucco. E altrettante volte ti lascia basito, ma con quella basitura tipica di quando poi arriva qualcos’altro a spiegare tutta la faccenda. Cosa che poi succede, anche se tardivamente.

Finale triste. Con pioggia, credo. In bianco e nero, sicuro. Musica straziante suonata da violoncellista bulgaro, probabilmente orfano.

Un pugno nello stomaco. Ma non è detto che io non me lo sia meritato.

E anche tu. Sì, tu che leggi. Vieni qui a prenderti il tuo cazzotto, che ti fa bene.

Addio.

(Rumore di passi che si allontanano…)

* Il tipo che ho sentito alla radio non diceva tutte queste cose, ma solo alcune. Ovviamente le diceva meglio di come le ho scritte io, con una voce giovane e con la passione di uno che ama leggere, non come me che odio tutto e tutti.

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